Alcune riflessioni dalla quarantena – Inizio aprile 2020
Stiamo vivendo un momento storico difficile, tragico, inedito. Un tempo che ci segnerà.
Una parte di noi è in prima linea contro la malattia, con il timore di non esserci più. La maggioranza è chiusa in casa, a fare i conti con la paura, con la distanza dalle persone care e con un tempo inattivo e silenzioso, quasi sconosciuto. C’è chi lavora da remoto e chi non lavora affatto, senza sapere quando potrà ricominciare. In Italia, per uscire a comprare cibo o buttare la spazzatura, serve un’autocertificazione. Si muore soli in ospedale e non è possibile celebrare i funerali dei propri cari.
Il mito del controllo, del pianificato, del prevedibile si è dissolto: ci troviamo a fare i conti con l’impermanenza. Ho letto che l’ideogramma giapponese della parola crisi (kiki) unisce due termini: problema e opportunità. Se il problema è evidente, l’opportunità va cercata.
La prima è sotto i nostri occhi: abbiamo liberato il mondo, per un momento, dal nostro rumore e dalla nostra presenza caotica. Le immagini satellitari mostrano cieli limpidi, l’inquinamento ridotto. È la rivincita di chi sogna di ribaltare l’antropocentrismo. Gli animali selvatici, unici padroni degli spazi esterni, godono di una quiete mai vista da decenni, forse da secoli. Nel porto di Cagliari, fermo da settimane, sono tornati i delfini. A Trieste accade lo stesso. Nelle vie di Milano vagano galline provenienti dal parco agricolo sud, nei parchi urbani si incontrano piccole lepri. Ho visto in rete immagini di elefanti addormentati nei campi di tè abbandonati in Cina, lupi sulle piste da sci, uccelli che nidificano sugli specchietti delle auto ferme e famiglie di anatre che entrano in farmacia nell’hinterland milanese, forse domandandosi dove siamo finiti.
A Venezia e nel Po l’acqua è tornata limpida.
Ecco la prima opportunità: fare spazio. Spostarsi dal centro della scena e guardare con gli occhi degli altri esseri viventi di questo pianeta, ridotti a schiavi o profughi. Guardare con gli occhi della Pianura Padana sfruttata e cementificata, o dei ghiacciai millenari che si sciolgono liberando virus sepolti da ere. È il momento di meditare sulla reciprocità. Quando smetteremo di occuparci del virus, dovremo ripensare — ancora una volta — ai nostri stili di vita. Possediamo troppo e desideriamo ancora di più. Corriamo, consumiamo, gettiamo, ci spostiamo senza limiti. Vogliamo tutto, e subito.
La seconda opportunità è l’arresto. Dopo anni di corse dietro impegni e scadenze, siamo fermi. Non lo avevamo previsto, non lo avremmo immaginato. Eppure è accaduto. Ci viene regalato tempo e silenzio. È un’occasione per affacciarci sul nostro mondo interiore, per porci domande non più superficiali. Io mi chiedo: mentre migliaia di operatori sanitari combattono in ospedale, qual è il mio contributo al mondo? A che punto sono giunta nel cammino della mia esistenza?
Cosa significa approfittare davvero di questa pausa, di questo silenzio, per ritrovare significati e risposte profonde?
In questi giorni mi accompagna un piccolo libro di Arturo Paoli, La pazienza del nulla. Paoli, sacerdote e poi fratello della comunità di Charles de Foucauld, visse un noviziato nel deserto algerino, tra lavoro, preghiera e lunghi periodi di solitudine in una grotta. In quel silenzio assoluto sperimentò il nulla, un’esperienza che restituì senso alla sua vita.
Il deserto, scrive, è una tappa irrinunciabile: lì non si è costretti a scegliere, perché non c’è nulla da scegliere. Accade solo il tempo. Il deserto spoglia l’ospite e lo lascia nudo. Per sopravvivere serve accettare, senza impazienza né sguardi all’indietro. È difficile, per chi è abituato a cavalcare il tempo, sedersi sull’erba e lasciare che il cavallo se ne vada.
L’uomo che cerca significati, nel deserto incontra il nulla. Chi vuole fare e possedere, sperimenta vuoto e inazione. Chi vuole capire, si trova davanti al mistero. L’essere non conosce il proprio valore finché non fronteggia la possibilità di non esistere. Eppure proprio questa esperienza diventa fonte potente di vita.
Dal mio zazen quotidiano nascono altre riflessioni.
Il distanziamento sociale, per me, è una condizione non ostile: non amo la folla, né le troppe parole. Eppure sento amore per l’umanità cui appartengo. Lo percepisco come un flusso che nasce dalla quiete, dal respiro, dall’abbraccio consapevole della meditazione silenziosa. Questa distanza, in fondo, ci avvicina: siamo come naufraghi, ognuno sulla sua barca, ma uniti dalla stessa sorte.
È un tempo in cui dobbiamo accettare di non capire e di non sapere. Consegnarci al vuoto, a una precarietà che ricorda la soglia dell’immaginazione: quando alla razionalità chiediamo di aspettare fuori e vacilliamo nell’ignoto, col cuore che batte forte, cercando nuovi modi di stare al mondo.
L’impermanenza, dopo l’illusione del controllo, è divenuta realtà tangibile. Siamo preoccupati, ma anche più vicini alla vita. Serve fiducia, priva di sostanza, un affidarsi. Azione e parola nasceranno dopo il silenzio e l’ascolto. Quando ripartiremo, servirà il meglio di noi. Dobbiamo iniziare a coltivarlo adesso.
Scrive la monaca Doju Dinajara Freire:
“La pandemia sta offrendo una lezione durissima a tutta l’umanità, colpendo tantissimi e scardinando un sistema socio-politico-economico non virtuoso, radicato da millenni a discapito nostro, del pianeta e delle altre specie. L’occasione di cambiamento evolutivo è più preziosa, e immediata, di quanto sia amara la medicina che karmicamente siamo obbligati ad assumere. Restate saldi, non vacillate, non dubitate. Risvegliatevi alla consapevolezza profonda, non temete la coscienza nuova che questo esercito di microorganismi ci sta scaraventando addosso.”

