Il saggio è silente

Oggi pensavo che ognuno, in questa vita, è intento a ricercare la felicità.

A me sembra che la felicità abbia a che fare con il senso dell’esistenza, in stretta relazione con il comprendere la propria natura e portarla a compimento.

Il verbo “ricercare” però fa pensare a un luogo e a un tempo “altro”, diverso da quello in cui mi trovo ora: uno spazio e un momento futuri, in cui le condizioni saranno migliori, forse perfette, e la felicità non sarà più un miraggio.

Eppure, maestri straordinari, da Buddha al contemporaneo Thich Nhat Hanh, ci hanno insegnato che «essere vivi e camminare sulla terra è il miracolo» e che non esiste un tempo migliore del presente. La bellezza della vita e della nostra natura ci chiama ogni giorno, ma spesso non sappiamo ascoltarla. Non sappiamo ascoltarla perché nella nostra mente e nel nostro cuore c’è troppo “rumore”.

Questo rumore nasce dal costante chiacchiericcio, verbale e soprattutto mentale, che ci accompagna senza tregua. Spesso non ci rendiamo conto di esserne vittime, e che proprio questa irrequietezza rappresenta il principale ostacolo al rilassamento e all’ascolto. Parliamo e conversiamo di continuo; e quando non parliamo con gli altri, parliamo con noi stessi. E quando non siamo noi a parlare, lasciamo che siano gli altri a farlo; e se non sono esseri umani, saranno la tv, la radio o la musica.

Come possiamo davvero vivere il qui e ora se pensieri sul passato e sul futuro ci trascinano via a ogni istante? È importante considerare che ogni volta che un pensiero o una parola si muove, agisce sul nostro sistema nervoso e chimico, generando agitazione. Spesso inoltre, a livello verbale, regna il caos: diciamo ciò che non pensiamo e non diciamo ciò che vorremmo. Per gratificare le emozioni esageriamo, distorciamo le percezioni e la loro espressione, piegandole a desideri, ambizioni e sogni.

Per verbalizzare i fatti così come sono servono invece umiltà e sobrietà. Parlare soltanto quando la comunicazione è necessaria e giustificata, quando nasce dall’esigenza autentica di condividere, è un atto di auto-educazione. Solo educandoci in questo senso, il caos delle parole si dissolve.

Ecco allora un ottimo esercizio che molti maestri suggeriscono: sperimentare un po’ di silenzio. Tornare consapevolmente al respiro, sospendendo per un po’ la parola. Astenersi dalla tentazione di inseguire ogni pensiero o riempire ogni vuoto. Permettere a silenzio e vuoto di esprimersi, ascoltare il nostro cuore che chiama. Anche quando questo può dare vertigine.

Da dove nasce allora il suono, quando vogliamo comunicare?

Nasce dallo spazio interiore. Suono e assenza di suono sono inseparabili, e tra silenzio e linguaggio c’è un legame profondo. Una parola che sorge dallo spazio del silenzio, dal rilassamento, ha una straordinaria forza di penetrazione.

Dedicando tempo al senza-suono della vita, le tensioni si allentano; immergendosi nel silenzio si impara, poco a poco, il rilassamento. La parola diventa allora frutto della vita stessa.

Vivere il silenzio, in una società tanto caotica e rumorosa, significa cominciare a semplificare la vita. Il silenzio non è repressione della parola, ma spazio originario e originante, come scriveva Raimon Panikkar. E Livia Chandra Candiani, nel suo bellissimo Il silenzio è cosa viva, ci ricorda che “il silenzio insegna a parlare, cuce chi sono con chi parla. Parlare come si è, aspettare la parola, riceverla, lasciarsi improvvisare da lei, seguirla”.

Non tutto, infatti, deve esprimersi a parole. La vita, i gesti, gli atteggiamenti sono ugualmente eloquenti. E le cose, nel vuoto del silenzio, trovano il loro posto preciso.

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