Riflessioni a partire dal testo “Less is More” di Salvatore La Porta
Molti di noi hanno conquistato con fatica un lavoro stabile e, grazie ad esso, l’accesso al credito. Mutui, rate e contratti ci hanno permesso di acquistare auto, arredi, elettrodomestici, servizi: oggetti che ci hanno dato sicurezza, riconoscimento sociale, un posto tra gli altri.
Ottimo.
Ma tutto questo ha avuto un prezzo.
Abbiamo iniziato a lavorare per mantenere ciò che possediamo. L’auto che ci porta al lavoro, in realtà, la paghiamo proprio lavorando. I beni acquistati a rate finiscono così per legarci al sistema economico, irrigidendo le nostre vite e impedendoci cambiamenti significativi: ridurre l’orario di lavoro, cambiare città, immaginare uno stile di vita diverso.
In fondo abbiamo barattato il tempo della nostra vita, il nostro bene più prezioso, con oggetti da mantenere e difendere. L’idea stessa di perderli ci genera ansia, perché abbiamo attribuito loro il potere di darci identità e valore sociale. Ma è un’illusione: come possono cose statiche e finite definire esseri mutevoli e universali come noi? Come scrive Thich Nhat Hanh, molti piaceri sembrano gioie, ma presto appassiscono come papaveri colti.
Le tradizioni spirituali hanno sempre contrapposto la ricchezza interiore a quella materiale, perché la pratica richiede duttilità. Dhyana, la meditazione, è uno stato di consapevolezza senza sforzo, flessibile come l’acqua che scorre e si adatta a ogni forma, senza perdere la sua forza.
I beni materiali, invece, ci vogliono statici, possessivi, preoccupati.
Per questo diventa necessario — poco a poco — liberarci dall’abitudine all’accumulo, dal desiderio continuo di avere “qualcosa in più”. Oggetti che promettono felicità ma spesso ci lasciano vuoti.
Avere meno, l’indispensabile (forse anche qualcosa in più della ciotola e della tunica dei monaci zen…), può restituirci la libertà morale e intellettuale, la freschezza e la duttilità necessarie a vivere in profondità questa vita.
