La cucina minimale

La mia cucina, da praticante zen, è una cucina minimale: semplice e insieme gioiosa.

È semplice nel numero degli ingredienti, nei tempi di preparazione e nei sapori. È gioiosa perché cura la presentazione, valorizza i colori naturali dei cibi e si fonda su principi di nutrizione sana, capaci di migliorare il nostro benessere.

Prende spunto da diverse tradizioni — la cucina devozionale dei monasteri zen, la macrobiotica, la cucina mediterranea e contadina — ed è sempre aperta a nuove interpretazioni personali.

Muove dal riconoscere che nutrirsi è un atto primario, come respirare o bere: serve a mantenere le forze, stabilizzare la mente e conoscere meglio l’universo di cui siamo parte. Preparare il cibo è, prima di tutto, un atto di cura verso sé stessi e verso gli altri.

La cucina minimale si rapporta al cibo con attenzione ma senza attaccamento. Non attaccarsi significa non dipendere dai sapori o dalle aspettative che proiettiamo sul cibo. Tutto è impermanente: quando costruiamo ideali e li usiamo per confrontare la realtà, perdiamo il vero appuntamento con la vita.

Il cuore della pratica è fare ogni cosa con concentrazione e cura, e poi lasciare che sia. Non distinguere tra ordinario e speciale, ma imparare — come scrive Dōgen Zenji, fondatore della scuola Sōtō — a “costruire grandi templi con verdure ordinarie”.

Che meraviglia: fare le cose con devozione e amore, senza preoccuparsi del risultato. Così ogni istante del processo diventa già compiuto.

Il cibo minimale è cibo semplice. Non è l’arte sofisticata di uno chef, non cerca la perfezione: ritorna ai sapori genuini e delicati — riso, legumi, semi, verdure, brodo, olio, sale, limone. E si fonda sulla gratitudine: questa ciotola di riso è qui grazie alla terra che lo ha nutrito, al sole, all’acqua, al contadino che lo ha raccolto. Ed è, ora, il miglior pasto possibile.

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